martedì 10 luglio 2007

con noi o contro di noi...Noam Chomsky

VITA
Ebreo americano di origine russa, Noam Chomsky nasce a Filadelfia il 7 dicembre 1928. Studia all'università di Pennsylvania filosofia, matematica e, sotto la guida di Zellig S. Harris e Roman Jakobson, linguistica. Si laurea nel 1955 e inizia a insegnare presso il famoso Massachussets Institute of Tecnology, dove forma un gruppo di allievi e collaboratori. Nel 1958-59 insegna anche all'Insitute for Advanced Studies di Harvard e nel 1964-65 al Centro di studi cognitivisti di Princeton. Dal 1966 è titolare della cattedra di lingue moderne e linguistica. Ha sempre alternato l'insegnamento e la ricerca con un appassionato impegno politico, sostenendo un pacifismo radicale e criticando l' imperialismo statunitense culminato nella guerra vietnamita.(fonte http://www.emsf.rai.it/scripts/documento.asp?id=159&tabella=anagrafico)

Molte cose sono cambiate nel corso degli ultimi mesi dopo l’11 settembre. In dicembre hai affermato che, se le tendenze attuali persistessero, “non sarebbe esagerato dire che la sopravvivenza della specie è a rischio”. Potresti indicare le tendenze principali che sono già in corso e spiegare perché siamo a rischio?La domanda sulle principali tendenze in corso è troppo ampia perché possa tentare di rispondere in maniera completa. Due di esse sono i due modelli di “globalizzazione” radicalmente diversi che sono raffigurati nelle due conferenze quasi simultanee di Davos e Porto Alegre. Al di là di ciò che altri possano pensare, la versione di Davos minaccia seriamente la sopravvivenza della specie. Una ragione è che il suo principio basilare, qualora fosse preso sul sio, condurrebbe alla conclusione che distruggere il nostro ambiente per i nostri nipoti sarebbe del tutto ragionevole se nel farlo agissimo da “massimizzatori razionali della ricchezza” nel senso esaltato dall’ideologia contemporanea. È sorprendente che Bush venga criticato per il suo rifiuto del protocollo di Kyoto. Dovrebbe essere lodato – come di fatto è da parte, per esempio, dei redattori del Wall Street Journal; fanatici pericolosi senza dubbio ma almeno abbastanza onesti da accettare le dottrine che predicano.

Un’altra ragione è fornita dalle previsioni sulla base delle quali gli strateghi operano. I servizi segreti USA, per esempio, predicono che la “globalizzazione” – intendendo la versione di Davos – condurrà ad una divisione crescente tra “coloro che hanno” e “coloro che non hanno”. E gli strateghi militari, adottando le stesse proiezioni, argomentano in maniera plausibile che per conservare la ricchezza ed il potere di “coloro che hanno” sarà necessario disporre di enormi mezzi di distruzione per controllare la turbolenza degli esclusi. Questa è la ragione per cui il bilancio militare USA deve superare quello combinato di 15 paesi, già prima dell’11 settembre, quando la paura e l’angoscia della popolazione fu sfruttata in maniera abbastanza cruda e disgustosa per innescare un incremento gigantesco della spesa militare: del tutto irrilevante per il terrorismo ma utile ad altri scopi.

Queste proiezioni rientrano nelle giustificazioni ufficiali dei programmi di militarizzazione dello spazio, con effetti che potrebbero distruggerci tutti. Le conseguenze probabili sono comprese e descritte in maniera abbastanza accurata dagli analisti dentro e fuori dal governo. Ma la maggior parte di essi e degli strateghi del governo e delle corporations non considerano questa possibilità molto importante in confronto con il bisogno trascendente di massimizzare la ricchezza ed il potere a breve termine.

Per chiarire, non sto parlando dell’ala conservatore – loro sono molto più estremi. Mi sto riferendo a documenti e piani dell’era Clinton, tutti piuttosto pubblici, incidentalmente. Uno può scegliere di chiudere gli occhi di fronte a tutto ciò piuttosto che sbatterlo nelle prime pagine, laddove sarebbe il suo posto. Questa è una scelta, non una necessità, e non una per la quale riceveremo il ringraziamento delle generazioni future.

Gli attacchi dell’11 settembre sono stati seguiti da una cronaca molto emotiva da parte della stampa nordamericana, riprodotta dalla stampa di tutto il mondo. I nomi e i volti delle vittime e la sofferenza delle loro famiglie sono state mostrate fino al punto da spossarli. Lo stesso non accade con le guerre in Africa, Iraq e finanche in Afganistan. Pensi che questi contrasti possano essere stati in parte responsabili per il supporto che l’opinione pubblica mondiale ha offerto agli Stati Uniti in questo frangente?
Molto pertinente è l’osservazione che lo stesso non accada nel caso delle operazioni di terrorismo internazionale condotte o sponsorizzate dagli USA e dai suoi alleati, che – dolorosamente – hanno spesso avuto un prezzo molto maggiore che l’11 settembre, come tutti i latinoamericani sicuramente sanno molto bene, e non sono certo i soli. Le atrocità dell’11 settembre sono state un fatto unico nella storia, ma non per la loro scala, sfortunatamente; piuttosto per l’obiettivo. Queste sono le tipiche atrocità che l’Europa e i suoi discendenti conducono contro altri; per la prima volta, i fucili sono stati puntati nell’altra direzione.

Ma la questione che sollevi non può trovare risposta così come l’hai formulata, perché si basa su ipotesi non precise. Prima di tutto, l’opinione pubblica negli USA è molto più varia e sfumata di quello che appaia attraverso i titoli di giornale e le pubblicazioni intellettuali. Questo fatto è stato anche riferito dalla stampa nazionale, in alcune occasioni in cui si è tentato di esplorare l’opinione pubblica, New York City compresa. Inoltre, l’opinione pubblica mondiale era piuttosto contraria ad un’azione militare che nuocesse ai civili – cioè quella che è stata pianificata e realizzata. Ciò era chiaro dall’inizio, finanche nei sondaggi internazionali. L’opinione pubblica sosteneva un’azione per trovare e punire i colpevoli, ma questa era cosa piuttosto diversa. E in generale era abbastanza consapevole, e spesso in maniera sincera, del fatto che le vittime tradizionali delle atrocità dei potenti sono trattate in maniera diversa, anche nel caso di crimini che ecccedano di gran lunga quelli dell’11 settembre – i quali sfortunatamente sono troppo facili da elencare, giacché la gran parte delle persone li conosce bene, sicuramente in America Latina.

Dopo l’11 settembre , gli USA ha cambiato atteggiamento verso certi paesi. Quali sono gli effetti principali di questa strategia?
Dopo l’11 settembre, gli stati più criminali e repressivi del mondo si sono resi conto che potevano guadagnarsi l’autorizzazione per i loro crimini da parte degli USA semplicemente unendosi alla “coalizione contro il terrore”. E ciò è esattamente quello che hanno fatto: la Russia, la Cina, l’Uzbekistan, la Turchia, Israele... una lista piuttosto lunga. Lo stesso vale per USA, Gran Bretagna ed altri, laddove gli elementi più duri e repressivi stanno sfruttando l’opportunità di estendere il potere statale per controllare i cittadini, con lo stesso pretesto. Quanto questi effetti potranno essere forti nessuno può dirlo. Come sempre, sono questioni in cui bisogna agire, non lasciarsi andare alle speculazioni.

Una conseguenza, comunque, è piuttosto chiara: gli USA stanno usando quest’opportunità per stabilire una presenza militare in Asia Centrale, formando alleanze con stati che sono a stento riconoscibili dai talebani, con l’intenzione di ottenere un controllo più forte sull’energia e altre risorse della regione, come pure alleanze strategiche. La Russia e la Cina sono ben poco compiaciute da questa cosa, per non parlare di attori minori come l’Iran.

Come sono cambiate le relazioni internazioni dopo l’11 settembre?

L’11 settembre è stato un evento storico, non per la dimensione dell’atrocità, che purtroppo è tutt’altro che insolita. Piuttosto per la direzione in cui i cannoni sono stati puntati. È la prima volta nella storia USA da quando gli inglesi rasero al suolo Washington nel 1814 che il territorio nazionale – non le colonie, ma il territorio nazionale – è stato posto sotto attacco, o finanche minaccia. Non devo certo ricordare ciò che è stato fatto ad altri nel corso di quasi due secoli.

Per la “patria”, l’Europa, il cambio è finanche più drammatico. L’Europa non ha conquistato ed occupato gran parte del mondo distribuendo caramelle ai bambini. Ma l’India non ha mai attaccato l’Inghilterra né l’Algeria la Francia, né il Congo il Belgio... Il terrorismo è la nostra maniera di trattarLI; non si pensa che possa essere rivolto contro di noi.

Lo shock riverberatosi dopo l’11 settembre è del tutto comprensibile, come la mancanza di interesse o anche attenzione quando l’ammiraglio Sir Michael Boyce, capo della difesa britannica, annunciò la politica ufficiale angloamericana, riportata in maniera evidente in un articolo di paertura del maggior quotidiano al mondo: minacciò gli afgani che sarebbero stati bombardati in maniera devastante “fino a che la loro leadership non fosse cambiata”, un quadro da manuale del terrorismo internazionale come è definito dalla legge USA.

Similmente, si capisce che non ci sia preoccupazione, forse un lieve rincrescimento, di fronte alla realizzazione di quella politica con la chiara consapevolezza che che avrebbe posto numeri elevatissimi di persone a rischio di morte d’inedia, milioni secondo i loro calcoli. In entrambi i casi – l’11 settembre e quanto vi è seguito – le reazioni sono naturali, sulla base dell’assunzione che la storia debba seguire il suo corso normale: NOI conduciamo atrocità inenarrabili contro di LORO, mentre la classe intellettuale loda se stessa ed i suoi leaders per la loro nobiltà d’animo. Questa è una bella fetta di storia, nel mondo reale.

Dopo l’11 settembre, gli USA hanno ridichiarato “guerra al terrorismo”, adottando la stessa retorica dell’amministrazione Reagan venti anni prima, quando prese i suoi uffici dichiarando che il nucleo della politica estera americana sarebbe stata la “guerra al terrorismo”, in particolare nella sua forma più virulenta, il terrorismo internazionale sostenuto dallo stato. Gli USA combatterono questa guerra costruendo una rete terrorista internazionale senza precedenti, e usandola con effetti letali in America Latina, Africa, Asia Occidentale e altrove, ciò che portò finanche alla condanna degli USA da parte della Corte Mondiale per terrorismo internazionale, condanna sostenuta da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sottoposta a veto da parte USA, che invocava tutti i paesi ad osservare il diritto internazionale.

Per quanto riguarda il Sud America, si trattò solo di una continuazione dell’ondata di terrorismo internazionale spalleggiato dagli USA che fu avviata da John F. Kennedy nel 1962, quando spostò la missione militare in America Latina dalla “difesa dell’emisfero” alla “sicurezza interna”; non dovrebbe essere necessario sviluppare ulteriormente il significato di quel termine, e di come sia stato tradotto in pratica, sicuramente non in Brasile.

I leaders della prima guerra contro il terrorismo hanno un ruolo preminente nella sua reincarnazione odierna: per esempio, John Negroponte, che guida la diplomazia in seno all’ONU e ha acquisito esperienza di terrorismo quando vent’anni fa era vice-console in Honduras, dirigendo la guerra terroristica contro il Nicaragua per la quale il suo governo è stato condannato dalla più alte autorità internazionali; o Donald Rumsfeld, che dirige la componente militare della guerra per “schiacciare il terrorismo”, come egli stesso la mette, e che apprese il fatto suo come inviato speciale di Reagan nel Medio Oriente, dove l’amministrazione Reagan ed il suo alleato israeliano vinsero facilmente il premio per il terrorismo in quegli anni.
(fonte http://www.zmag.org/Italy/chomsky-pa2.htm )